Nel cuore del deserto algerino, alcune rocce emettono un suono metallico simile a quello di un serbatoio vuoto quando vengono colpite. Questo affascinante fenomeno geologico, noto come rocce sonore o rocce litofoniche, continua a incuriosire studiosi e appassionati di tutto il mondo.
Si tratta di formazioni rocciose che, sebbene all’apparenza comuni, celano una sorprendente capacità acustica: risuonano come campane quando vengono percosse. Il perché di questo comportamento rimane ancora un mistero scientifico.
Le rocce litofoniche sono frammenti rocciosi che producono suoni cristallini e metallici simili a un rintocco quando vengono leggermente colpiti. Sebbene esteticamente indistinguibili da normali rocce, rivelano la loro singolare proprietà sonora solo se percosse con un martello.
Questa sonorità non è casuale né universale: solo circa un terzo delle rocce in determinati campi litici riesce a produrre questi suoni. Le rocce che suonano vengono definite “rocce vive”, mentre quelle silenziose sono dette “rocce morte”.
A livello compositivo, queste rocce sono generalmente costituite da diabase, un tipo di roccia magmatica simile a quella che forma gran parte della crosta terrestre. In particolare, le rocce sonore tendono a essere rocce a grana fine e ricche di silice, come quarzite, rhyolite o basalto.
Queste caratteristiche strutturali permettono alle onde sonore di propagarsi con efficienza. Quando una roccia viene colpita, vibra secondo le sue frequenze naturali di risonanza, generando un suono chiaro e definito. L’intonazione varia in base a dimensione, forma e composizione della roccia.
Nonostante le ipotesi, non esiste una risposta definitiva su cosa renda queste rocce capaci di suonare. Alcuni studi hanno tentato di collegare la sonorità all’elevata tensione interna delle rocce o alla loro struttura omogenea e priva di difetti visibili.
Anche il contenuto di ferro è stato considerato, ma analisi chimiche effettuate nella zona di Coffman Hill, in Pennsylvania, mostrano una percentuale di ossido ferrico compresa tra il 9% e il 12%, valori che rientrano nella norma per un basalto e che, dunque, non sembrano spiegare da soli il fenomeno.
Un esperimento condotto negli anni ’60 da un professore della Rutgers University ha cercato di studiare il fenomeno attraverso l’uso di estensimetri a lamina, strumenti in grado di rilevare minuscole variazioni di forma. Campioni di rocce “vive” e “morte”, prelevati da un sito nel Bucks County (Stati Uniti), sono stati tagliati in sezioni sottili e sottoposti a misurazioni di deformazione. I risultati hanno confermato differenze meccaniche tra i due tipi di roccia, ma non hanno fornito una spiegazione univoca.
Un’altra teoria suggerisce che le rocce sonore conservino tensioni elastiche residue risalenti al periodo della loro formazione. Tali tensioni, dette “relict stress”, si sarebbero sviluppate quando il magma, a oltre 2.000 metri di profondità, si è raffreddato lentamente formando un sill di diabase.
Il lento processo di erosione avrebbe impedito la dissipazione di queste forze interne, mantenendo le rocce “in tensione” e quindi capaci di risuonare, proprio come una corda di chitarra tesa emette un suono se pizzicata, mentre una corda allentata rimane muta.
Nonostante l’evidente fascino e le numerose teorie, le rocce sonore restano un fenomeno poco esplorato scientificamente. Le condizioni ambientali, la disposizione dei massi e il tipo di percussione influiscono sul suono prodotto, ma non ne spiegano del tutto l’origine.
Il mistero delle rocce che “cantano” (bell stones) continua quindi ad alimentare la curiosità di geologi, artisti del suono e viaggiatori attratti dall’insolita sinfonia nascosta nel cuore della pietra.
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